Trascrizione dell'intervista a Giovanni Taurasi
Per quale motivo si poteva finire nelle carceri fasciste
Introduzione (Francesco Bertolucci, giornalista): Cosa si doveva fare per finire in carcere nell’Italia fascista? Com’era poi la vita nelle carceri e come cambiano queste durante il ventennio? Ne abbiamo parlato con Giovanni Taurasi, storico e autore di ricerche e libri anche sulle carceri fasciste Taurasi, come si faceva a finire in carcere in Italia fascista?
Risposta Giovanni Taurasi, storico
In carcere nell’Italia fascista ci poteva finire chiunque. Nel senso che bastava violare le norme, eravamo sotto una dittatura. Noi oggi ci scandalizziamo, quando assistiamo in giro per il mondo a vicende come quella di Patrick zaki o di Regeni torturato e ucciso in carcere. Ma non pensiamo che 80/90 anni fa succedeva la stessa cosa in Italia: si finiva in carcere anche solo per aver raccontato una barzelletta sul Duce. Uno dei primi condannati dal tribunale speciale appunto fu condannato perché aveva dato al Duce del puzzone e si prese tre anni di carcere. Si finiva in carcere per un’attività, diciamo sovversiva un po’ più organizzata, ma anche banale. Bastava per esempio avere una copia clandestina di un giornale, perché poi
dalla seconda metà di anni 20 in poi la stampa libera è vietata, di un giornale clandestino come L’Unità o l’Avanti o da altri e si finiva automaticamente in carcere. Si finiva in carcere perché ci si radunava in tre o più persone per discutere di politica e mettere in discussione il regime .Con il tribunale speciale fascista le condanne erano pesanti ed erano devono condanne semplicemente per reati di opinione. Parliamo di giovani dai 20-30 anni che si beccavano 5-10-15 anni di carcere perché avevano un’opinione diversa appunto dal regime fascista.
Domanda Bertolucci: Con l’arrivo degli oppositori politici cambia per così dire anche la vita delle carceri.
Risposta Taurasi
Allora ad un certo punto diciamo le carceri di dissidenti gli antifascisti e quindi c’è un problema anche nella gestione appunto delle carceri perché c’è una contaminazione. Ecco chiamiamola così fra antifascisti, cioè tra persone in prigione per reati di opinione, appunto politici, e persone che erano invece in prigione in galera per crimini normali. Anche per questo a un certo punto il regime cerca di separare gli antifascisti dai detenuti comuni diciamo così perché attraverso un rapporto diretto con gli antifascisti si crea anche una coscienza antifascista tra i cosiddetti detenuti comuni. In particolare dal 1932 vengono concentrati in tre carceri, in particolare i detenuti politici e quelli ritenuti meno pericolosi e a seguito di amnistia, vengono liberati. La prima amnistia, una delle prime, più importanti, è quella del 32, del decennale del fascismo. Ce ne saranno anche altre. Ma ance questa amnistie non sono state fatte per generosità da parte del regime ma proprio perché non riuscivano più a contenere all’interno delle carceri i 5.000 e oltre condannati dal tribunale speciale per motivi politici.
Domanda Bertolucci: Com’era la vita nelle carceri fasciste?
Risposta Taurasi
Beh, ovviamente le carceri erano luoghi poco salubri, e la vita in carcere è una vita molto dura. Oggi anche oggi sappiamo che ha avuto la vita nelle carceri italiane è una vita molto molto dura e ci sono condizioni anche sanitarie, a volte molto delicate. In quel caso ancora di più perché andiamo anche molto indietro nel tempo, il carcere era effettivamente molto duro. C’è un libro famoso che si chiama la cattedra e il bugliolo, scritto da Antonio Pesenti un dissidente antifascista. Già dal titolo c’è un richiamo a questo binomio: la cattedra perché effettivamente il carcere per molti antifascisti fu un luogo anche di formazione politica. Fra di loro ci furono molti detenuti e dissidenti, finiti in carcere che non avevano neanche la
quinta elementare e che nel rapporto diretto in quelli che vengono chiamati collettivi con gli altri antifascisti, in particolare gli antifascisti di matrice comunista ma anche socialista, cominciano a imparare delle cose. Non avevano mai fatto neanche le scuole elementari magari ma a contatto con un antifascista che si era laureato, che aveva fatto studi, che aveva una formazione maggiore, all’interno di questi collettivi molti antifascisti imparano a scrivere, imparano soprattutto a parlare diciamo in pubblico in qualche modo, imparano a fare di conto.. imparano anche a volte delle lingue anche straniere o delle materie scientifiche. Ecco questo è appunto la cattedra nel titolo di Pesenti, cioè il carcere come università dell’antifascismo, come luogo di formazione. Ma dall’altra parte il libro di Pesenti che è passato in carcere durante il fascismo, richiama il bugliolo, cioè il recipiente per i bisogni corporali. Ecco bisogna sempre pensare al carcere fascista, soprattutto come questo secondo aspetto di questo binomio, cioè il luogo della repressione, delle sofferenze. Non solo per gli antifascisti uomini, ma in particolare anche per le donne antifasciste che raccontano ad esempio nelle loro memorie per dire che come dopo pochi giorni che entravano in carcere, in queste condizioni molto insalubri, a loro si bloccava ad esempio anche il ciclo per dire per fare qualche esempio banale. Ma anche per gli uomini se noi andiamo a vedere qual era il foglio matricolare che rendicontava qual era lo stato di salute del detenuto, vediamo come progressivamente decine, centinaia di antifascisti vedono peggiorare il loro grado di salute e in modo significativo. D’altro canto pensiamo all’antifascista forse più famoso, cioè a Gramsci, anche egli appunto se ripercorriamo il suo percorso in carcere vediamo come le sue condizioni di salute peggiorano fino a condurlo alla morte.
Domanda Bertolucci: C’è una storia che le è rimasta impressa nelle sue ricerche? Tra gli oppositori in carcere ci fu anche chi è stato poi deportato?
Risposta Taurasi
Sì, certo, ci furono anche molti antifascisti che usciti dal carcere dopo l’8 settembre vennero deportati, o per motivi politici o per motivi razziali. Ad esempio, ricordo la storia di un antifascista si chiamava Giovanni Domaschi che era nato a Verona e che era stato condannato per diversi anni per il suo antifascismo durante il regime, aveva provato anche diverse fughe del carcere, un personaggio con una vita veramente straordinaria da questo punto di vista. E dopo la caduta del fascismo, lui era un vicino anche il mondo anarchico, venne quindi portato nel presso il campo di internamento di Renicci ad Anghiari in provincia di Arezzo, dove gli anarchici appunto furono liberati per ultimi solo dopo l’armistizio del settembre del 43. Domaschi allora rientra a Verona, partecipa alla resistenza, entra nel comitato di Liberazione Nazionale e il 14 luglio del 44 viene arrestato dopo una retata che porta alla cattura di diversi membri del comitato di Liberazione Nazionale. Viene torturato, orrendamente torturato e dopo una ventina di giorni viene consegnato con altri antifascisti e partigiani arrestati alle SS. In agosto viene trasferito il campo di concentramento di Gries a Bolzano e in settembre poi viene deportato a Flossenburg e poi in un sottocampo di Dachau dove morirà nel febbraio del 45. Il destino, il percorso, la vita di Domaschi appartiene, naturalmente, anche molti altri antifascisti che furono deportati successivamente all’8 settembre del 1943.