Trascrizione intervista Alessandra Kersevan
Carceri e campi di concentramento italiani, l'invasione fascista della Jugoslavia
Decine e decine di carceri e campi di concentramento sono quelli che ha per così dire importato il regime fascista nei paesi che ha invaso. Carcere e campi infatti, li troviamo nel odierna Libia, In Etiopia, in Eritrea, in Somalia, in Grecia e naturalmente in Jugoslavia. Centinaia e centinaia di persone perseguitate e spesso uccise dal regime fascista. Un regime che riproponeva nei territori invasi, quanto fatto in Italia nella persecuzione degli oppositori con l’aggravante della costruzione di campi di concentramento fascisti, Una pagina nera spesso dimenticata. Prendendo ad esempio il caso jugoslavo, ne abbiamo parlato con Alessandra kersevan, storica e autrice di ricerca sul tema. Kersevan, cosa accade dopo che l’Italia invade la Jugoslavia?
RISPOSTA KERSEVAN: Diciamo che dopo l’aggressione del 1941 il confine orientale d’Italia si era spostato molto ad est arrivando oltre Lubiana praticamente. Quindi si ha l’inizio della lotta di liberazione e già nell’autunno del 41 a Lubiana funziona il tribunale militare di guerra e vengono comminate le prime condanne a morte. E nell’inverno 41-42 abbiamo dei provvedimenti repressivi molto molto estesi e molto drastici. In particolare nel febbraio del 1942, in una notte, il reggimento dei granatieri di Sardegna circonda la città di Lubiana con un reticolato di circa 35 chilometrie per procedere a retate. Vengono arrestati tutti gli uomini adulti della città di Lubiana e sottoposti a controlli. E vengono rinchiusi innanzitutto in quelle che potevano essere le carceri di Lubiana, che non furono evidentemente sufficienti, e quindi poi vennero usate anche le caserme che erano state dell’esercito jugoslavo e che erano evidentemente rimaste inutilizzate fino a quel momento perché l’esercito jugoslavo si era arreso già nel nell’aprile del 1941. Quindi si hanno queste carceri, diciamo improvvisate ma ben presto anche queste si rivelano insufficienti e quindi la situazione di questi arrestati che rimangono anche per settimane nelle caserme, praticamente distesi o seduti sul pavimento mangiando pochissimo con scarsissime possibilità di qualsiasi forma di igiene eccetera. Le condizioni diventano gravissime e quindi il comando della seconda armata, l’intendenza, decide di trasferire questi prigionieri in campi di concentramento. I primi campi di concentramento sono delle caserme sempre nella zona della Valle dell’Isonzo e poi, dal momento che il territorio in cui c’erano queste caserme nella Valle dell’Isonzo, era comunque territorio di lotta partigiana, decidono di trasferire questi prigionieri in un campo che fosse all’interno dei vecchi confini italiani. Questo termine che veniva usato nei documenti militari, erano quelli, praticamente che erano stati precedenti alla prima guerra mondiale. E quindi si individuò il campo di Gonars che è un paese a circa 20 chilometri a sud di Udine, nella pianura friulana e lo dobbiamo immaginare con tutti i crismi di un campo di concentramento. Cioè delle baracche di legno circondato da alto reticolato con torrette con i nidi di mitragliatrice, fari per l’illuminazione notturna e quindi nel marzo del 1942 il generale Roatta, il generale Robotti e gli altri che comandavano l’esercito in questo territorio, decidono di trasformarlo da campo per prigionieri di guerra in campo per internati civili. E così nel marzo del 42 cominciano ad arrivare con il treno, da Lubiana passava poi per Aurisina e si fermava in un paese vicino a Gonars, Bagnaria Arsa che alla stazione poi da Bagnaria Arsa, che è a circa 5 chilometri da Gonars, a piedi arrivavano incatenati e poi legati anche con gli schiavettoni, arrivavano in una lunga processione scendendo dal treno arrivavano nel campo di Gonars. Nel giugno del 42 nel campo c’erano già 4.200 persone. In un campo che aveva come capienza 2.500, quindi c’era già un sovraffollamento. che sarebbe diventato ancora più affollato perché nella fine di settembre del 42 c’erano 6.500 persone. Durante l’estate del 1942 le retate che si erano svolte nelle varie città della Slovenia e della provincia di Lubiana, si trasformarono in rastrellamenti veri e propri del territorio con provvedimenti gravissimi come un incendio dei villaggi e lo sfollamento di tutta la popolazione. Nel frattempo vennero istituiti molti altri campi di concentramento oltre a quello di Gonars. Nell’estate del 42 si ebbero i campi che nel territorio italiano di Monigo di Treviso, Chiesanuova di Padova, o in Toscana a Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo, poi Cairo Montenotte in provincia di Savona e poi Fraschette di Alatri in provincia di Frosinone e poi molti altri campi in Umbria, Colfiorito Pietrafitta, Tavernelle, e queste erano destinate soprattutto per esempio a internati montenegrini. Mentre invece agli altri che ho nominato soprattutto sloveni e croati. Poi moltissimi altri campi, questi sono i principali, quelli che avevano ognuno migliaia e migliaia di internati. Ma poi c’era tutto una geografia, diciamo diffusa nel territorio italiano di tanti altri piccoli campi di concentramento gestiti, magari no dal Ministero della guerra ma dal Ministero dell’Interno, situati non so in fabbriche in disuso, filande o anche vecchie scuole. E con alcune decine, alcune centinaia di internati. E quindi diciamo entro il 1942 e c’è tutto un panorama in tutte le regioni italiane di piccoli o grandi campi di concentramento per internati civili e jugoslavi. Se nella prima fase di questi rastrellamenti erano stati arrestati e fatti prigionieri e internati soprattutto uomini adulti da intendersi dai 14/15 anni in su, poi invece con con il rastrellamenti dell’estate del 1942 vengono arrestati e internati anche altre categorie di persone: donne, vecchi e bambini. Quindi nel campo di Gonars, per esempio, quello di cui ho parlato, il primo che si è usato, arrivano nel nell’inverno 42-43 migliaia di donne con bambini e vecchi. Oltre i campi che ho nominato vennero aperti molti campi, in condizioni se si può dire anche peggiori, nelle isole della Dalmazia occupate dopo il 1941. In particolare ad Arbe, Rab come nome croato dell’isola vicino a Fiume, vennero vennero internate fino a 10.000 persone, in questo caso, soprattutto donne, vecchie e bambini e poi altre altri luoghi sempre delle Isole della Dalmazia, del territorio diciamo dell’Adriatico orientale. Melada, poi l’isola di Antivari e quindi tutto un panorama anche di campi di concentramento e quindi internamento anche dall’altra parte diciamo dell’Adriatico rispetto alla penisola italiana. Tutti questi furono sotto il comando dell’esercito italiano oppure del Ministero degli Interni, diciamo del regime fascista e morirono in questi campi in un anno o poco più di funzionamento, migliaia di persone. Nel campo di Gonars, per esempio morirono in un anno e mezzo di funzionamento 500 persone e le cause furono la fame sostanzialmente e le condizioni di vita disagevoli. Nell’isola di Arbe morirono, almeno 1500 persone e altri numeri simili in molti altri luoghi, che ho nominato prima.
DOMANDA BERTOLUCCI: Si sa quante persone ha perseguitato e ucciso il fascismo in Jugoslavia, c’è una stima tra persone messe in carcere e persone deportate e uccise.
RISPOSTA KERSEVAN: Sì, allora per quanto riguarda i campi di concentramento, furono internate tra le 120 e le 150 mila persone. Questa differenza, diciamo è dovuta a diversi metodi, probabilmente di calcolo. 150 mila è la cifra portata dalla allora Jugoslavia e teneva conto naturalmente anche degli studi degli storici jugoslavi. è una differenza non particolarmente significativa secondo me perché comunque 120.000 è già un numero molto grande, tenuto conto che tutta questa vicenda finì appunto l’8 settembre del 43. Se il fascismo non fosse caduto, non ci fosse stato l’armistizio e la politica italiana di aggressione agli altri paesi di deportazione fosse continuata fino alla fine della guerra, i numeri sarebbero stati ancora più alti. Di questi 120mila e più persone, sono morte tra le 7 e le 11mila persone. La difficoltà di calcolare i numeri, è dovuta anche al fatto che questi internati venivano spostati continuamente da un campo all’altro. E molti morirono anche nei trasferimenti e poi anche nella prima fase dell’internamento. Anche i comandi militari del campo e del distretto eccetera, tenevano conto dei numeri sia dei deportati che di coloro che morivano. E a un certo punto invece tutti questi calcoli nella fase più concitata, diciamo degli ultimi mesi, la rilevazione non fu fatta in maniera così puntuale. Quindi non si hanno dati del tutto certi, Però i numeri più o meno sono questi, migliaia di persone. E la causa in tutti questi casi è morte per fame e malattie conseguenti alla fame. Quindi morti dovute alle condizioni di vita estremamente difficili.
DOMANDA BERTOLUCCI: Ma il sistema era lo stesso di quello nazista? Cioè venivano prima messi in carcere, poi deportati in questi campi e fatti lavorare, morire di lavoro o erano diversi?
RISPOSTA KERSEVAN: Nel sistema concentrazionario italiano che era soprattutto gestito dall’esercito per quanto riguarda i grandi numeri, non era previsto l’uso degli internati non so in lavori in fabbrica… In Friuli c’era un campo di lavoro, per esempio in cui vennero mandati soprattutto contadini sloveni nella zona di Fossalon di Grado, quindi diciamo nella parte meridionale della Regione. Furono internati circa tra le 300 e 500 persone che si dedicavano al lavoro nei campi sostanzialmente. Poi non so, in Umbria per esempio vennero usati gli internati per la costruzione di una ferrovia a Tavernelle, poi anche in una piccola miniera. Però in generale gli internati nei campi venivano lasciati così senza far niente. Infatti molti ricordano anche che uno dei problemi, può sembrare incredibile, ma era anche la noia delle giornate che passavano uguali senza poter spesso, soprattutto coloro che erano persone che avevano studiato che avevano lavori, diciamo anche intellettuali ma anche per coloro che erano abituati a lavori manuali, l’inattività in qualche maniera era comunque un problema. Poi unita alla scarsa alimentazione e alle malattie, ai parassiti eccetera, è diventata insomma una situazione…E poi naturalmente venivano usate anche le carceri in Italia. Per esempio ricordo di essere stata a Foligno una volta a fare una conferenza e lì appunto mi raccontarono che le carceri di Foligno erano state proprio in quel periodo 1942-1943, sovraffollate per l’arrivo, anche in quel caso, per esempio di donne slovene. Perché anche molte donne furono naturalmente internate, non solo le donne arrestate nel nei villaggi rastrellati per liberare il territorio della popolazione, ma anche donne che erano state impegnate nella lotta di liberazione. E poi anche anche per esempio nelle isole. Le isole che erano state le isole del confino durante il fascismo vennero internati anche lì. Quindi una realtà diffusa che però è stata in qualche maniera prima dimenticata, poi tacitata adesso se ne parla un po’ di più.
DOMANDA BERTOLUCCI: Perché dalla Jugoslavia venivano portati nelle carceri italiane o nei campi di concentramento italiani
RISPOSTA KERSEVAN: Perchè l’esercito italiano all’inizio li aveva internati anche sui territorio occupati. Però data la forza della lotta di liberazione jugoslava, diventava difficilissimo controllare questi campi. Anche per esempio durante il trasporto in treno che avveniva appunto dalla zona di Lubiana verso il campo di Gonars o di Renicci, nella parte del territorio abitato da sloveni, i partigiani erano riusciti spesso anche a fermare il treno e a liberare una parte di internati. Quindi diciamo il l’esercito italiano ebbe grossi problemi a controllare il territorio. Infatti le grandi retate, i rastrellamenti che vennero fatti, avevano come scopo quello di liberare il territorio dalla popolazione. Perché lo scopo di questi campi di concentramento nei programmi perlomeno dell’esercito italiano, a parte quelli che venivano riconosciuti come pericolosi, per quanto riguarda la massa della popolazione che veniva deportata non era tanto di tenerli nei campi di concentramento, ma di smistarli poi in varie parti d’Italia. Cioè lo scopo era quello di liberare il territorio dalla popolazione, in modo che non ci fosse sostegno da parte della popolazione ai partigiani e queste popolazioni deportate, avrebbero dovuto poi essere smistate in varie regioni d’Italia per essere in futuro, se in Italia avesse vinto insieme con la Germania evidentemente, assimilati alla popolazione italiana e quindi risolvere il problema dell’esistenza di popolazioni non italiane sui territori annessi. E quindi c’era un progetto in grande stile che naturalmente non poté essere realizzato nella sua completezza, sia perché ci fu comunque questa importante lotta partigiana che osteggiò questi progetti e poi perché insomma l’Italia nel 43 era già in piena crisi. L’esercito italiano faceva fatica a controllare tutti questi territori, quindi non avrebbe potuto procedere a ulteriori deportazioni in massa come aveva fatto nel 1942. Anche se le deportazioni continuarono addirittura, questa è una cosa interessante da aggiungere, che le deportazioni non finirono con il 25 luglio del 43, cioè con la caduta di Mussolini. Ma continuarono anche con il governo Badoglio, ancora fra il 25 luglio e l’8 di settembre. E ci furono dalla zona, addirittura della Venezia Giulia quindi del territorio annesso all’Italia già dopo la prima guerra mondiale nella parte abitata da sloveni, ci furono le deportazioni da parte dell’ispettorato speciale di pubblica sicurezza di Trieste, di circa duemila persone ancora nel periodo tra tra 25 luglio e 8 di settembre. E questi furono deportati soprattutto nei campi di concentramento di Cairo Montenotte in provincia di Savona i maschi e di Fraschette di Alatri in provincia di Frosinone, soprattutto le donne e i bambini.
DOMANDA BERTOLUCCI: Si trattava ovviamente solo di campi fascisti non erano campi nazisti
RISPOSTA KERSEVAN: Erano sotto il comando italiano, decisi dall’esercito italiano, dal regime fascista. Infatti l’esistenza di questi campi termina più o meno dopo l’8 di settembre, cioè dopo l’armistizio italiano. Però se posso dire io in questi anni sono andata in moltissime regioni d’Italia a fare conferenze su questo argomento e posso dire che ancora incontra sempre una grande meraviglia perché nella coscienza collettiva degli italiani, non c’è ancora diciamo posto per questa realtà di questi crimini commessi dal fascismo e dall’esercito italiano durante la 2° Guerra Mondiale.