Trascrizione dell'intervista a Gianluca Fulvetti

La costruzione della dittatura, la messa a tacere degli oppositori e i luoghi di tortura del regime.

Introduzione
(Francesco Bertolucci, giornalista)

Come fa il fascismo ad eliminare il dissenso e togliere pian piano la libertà agli italiani? Come fa Mussolini a costruire la dittatura? Che fine fanno i partiti? E gli oppositori? Per cercare di dare una risposta a queste domande, abbiamo parlato con Gianluca Fulvetti professore dell’università di Pisa e autore di numerosi libri sul periodo del ventennio e della Seconda Guerra Mondiale. Professore, come perdono le libertà gli italiani, ovvero come viene costruita la dittatura da parte di Mussolini? In che modo viene represso il dissenso? E qual è il ruolo della violenza in tutto questo?

RISPOSTA FULVETTI: Allora il fascismo, chiaramente è un movimento politico che ha un legame identitario con la violenza. Insomma ne fa uno strumento programmatico di conquista del potere poi. Non è stato soltanto manganello e olio di ricino come la storiografia ha rivelato però è un elemento identitario è un elemento identitario. Un elemento identitario della primissima comunità politica fascista chiamiamola così, insomma che è la realtà dei Fasci di combattimento che nascono a Milano nel marzo del 1919 e poi è un elemento di identità di questi gruppi di squadristi che a partire dalla fine del 1920, insomma primavera del 1921 cominciano a dar la caccia agli oppositori politici. Insomma quello è anche il terreno di costruzione di consenso del regime, perché alle prime elezioni del novembre del 19 l’esito elettorale era stato era stato diciamo così un insuccesso. Quindi è una violenza che viene utilizzata prima per andare a riconquistare le campagne ai danni del movimento contadino e poi utilizzata per fare un assalto alle alle città e quindi a quelli che sono i luoghi della partecipazione, della alfabetizzazione politica degli oppositori: le sedi dei partiti, dei sindacati, le camere del Lavoro, le case le case del Popolo. Mussolini va al potere con la marcia su Roma o meglio dopo la marcia su Roma, quindi con la benedizione del re che gli dà l’incarico di costituire un governo. C’è una fase di transizione che va dall’autunno del 1922 fino di fatto al 1925 in cui i fascisti governano insieme a un pezzo di classe dirigente liberale convinta di poter costituzionalizzare questo movimento insieme a un pezzo del Partito Popolare che è un partito di massa dei cattolici, nato nel 19 che ha un’anima più sociale, più sindacale che ha appoggiato il movimento contadino e ne ha invece una più moderata, condizionata dal filtro della anticomunismo. Dal timore che anche in Italia possa succedere quello che è successo in Russia. La costruzione della dittatura di fatto è avviene in uscita dalla crisi di Matteotti, l’uccisione di Matteotti, le indagini, si capisce che il mandante è stato Mussolini nell’estate autunno del 24. È l’unico momento di crisi del Fascismo e Mussolini ne esce con il discorso del gennaio del 25, in cui dice “avrei potuto utilizzare ancora di più la violenza, l’ho frenata”. Di fatto rivendica e si prende la responsabilità di quello che di quello che è successo. E tra il 25 e 26 si avvia effettivamente la costruzione della dittatura, con la nascita dell’Ovra, opera vigilanza e repressione antifascismo, di questa polizia segreta, con la nascita del tribunale speciale dello Stato, che è questo organo preposto diciamo così ai giudizi e procedimenti penali contro gli oppositori politici, quindi si crea un sistema politico a Partito Unico, a sindacato unico vengono sciolte tutte le altre associazioni, quindi formalmente lo Statuto Albertino non viene abrogato, ma lì è il momento in cui c’è la rottura dello stato di diritto. Cioè i cittadini non sono più tutti quanti uguali davanti alla legge perché c’è un divieto di ricostituzione dei partiti politici, in Italia e all’estero. Il passaggio chiave è la legge 2008 del 1926 e alcune degli articoli mettono in evidenza proprio questo questo aspetto, insomma gli antifascisti che vanno all’estero a continuare la loro battaglia perdono la cittadinanza, lo Stato può confiscare i loro beni, quindi quello è il momento dell’avvio della dittatura. E quindi si comincia ad utilizzare poi l’arresto degli oppositori politici che cominciano a finire in carcere una volta che sono stati condannati utilizzando il codice penale. Altri finiscono in quelli che si chiamano i luoghi di confino. È un altro degli strumenti repressivi del regime, un po’ un ampliamento del soggiorno obbligato che aveva già creato l’Italia liberale, è una misura di tipo amministrativo, non di tipo penale, estremamente arbitraria. Perché di fatto se uno legge anche la definizione che ne ha dato lo stesso fascismo, mi pare nel 38, nel 39 esce sull’enciclopedia italiana appunto la voce confino che è scritta da un magistrato, insomma un uomo di legge, si dice proprio che è una misura che ha una natura preventiva: la persona che è pericolosa, diciamo così per per la vita politica del paese, viene tolta dal suo ambiente, dalla sua rete familiare, dalla sua rete di amicizia, per renderlo, diciamo così innocuo. E viene mandato a centinaia, insomma, in qualche caso molte centinaia chilometri di distanza, viene attenzionato dalle dalle autorità, quindi formalmente non sta in carcere. Insomma però è come se fosse anche quello un luogo di di detenzione. Tra l’altro la pena del confino, appunto può essere comminata a una durata massima di 5 anni, ma può essere reiterata. Quindi è in quella fase lì che gli antifascisti cominciano a misurarsi con l’esperienza del carcere.

 


 DOMANDA BERTOLUCCI: Ma in tutto questo che fine fanno i partiti?

RISPOSTA FULVETTI: I partiti non è che spariscono. Quindi il partito socialista, il partito comunista provano a mantenere una minima struttura clandestina operativa in Italia. Quello che regge più a lungo è il Partito Comunista d’Italia come si chiama all’epoca. All’inizio degli anni trenta si parla più o meno di 3000 militanti che sono attivi soprattutto nelle città più importanti del paese, in quelle che sono le città le città operaie. Il Partito Socialista italiano viene frantumato quasi subito. Ci sono dei gruppi legati al movimento anarchico, che è una cultura politica importantissima nella storia italiana e che poi viene di fatto spazzata via da parte del fascismo. Nel 1929 a Parigi Carlo Rosselli promuove la nascita di Giustizia e Libertà, che è un nuovo movimento politico antifascista che mescola un po’ le istanze dei repubblicani e dei socialisti, diciamo così non sovietici. E ci sono alcuni gruppi di Giustizia e Libertà attivi nel paese. È un nuovo movimento che ha sia questa natura intellettuale, di studiosi che cominciano anche a studiare il fascismo – il primo laboratorio di studi sul fascismo, probabilmente giustizia e libertà – ma c’è anche un’attività cospirativa in in Italia. Quindi se si è arrestati per questa attività di tipo cospirativo, per questa attività politica di proselitismo, la stampa dei volantini andare nelle fabbriche a parlare con gli operai e quant’altro, si finisce in carcere. Sulla base, appunto, di quelle che sono le norme previste dalle leggi fascistissime. Molti di questi antifascisti insomma escono dall’Italia si vanno a rapportare a quelli che sono i centri esteri di questi partiti, poi dopo rientrano… Quindi c’è un tentativo di tenere aperta la fiammella del pluralismo, della denuncia, di fare proselitismo, ecco. Ma queste attività che dovrebbero essere normali in un contesto liberale Democratico perché appartengono al pluralismo, sono proibite dal regime. E quindi nel caso in cui si sia legati a queste strutture clandestine dei partiti, si viene processati dal tribunale speciale della Difesa dello stato, di fatto come come traditori, e sulla base delle condanne si passano dei periodi più o meno lunghi in carcere. E a fianco ci sono queste queste pene che vengono combinate da queste commissioni provinciali del confino. Quindi c’è questa doppia dimensione della reclusione, con cui possono fare i conti gli antifascisti in Italia a partire dal 25-26 in avanti. Rosselli è arrestato subito, mi pare che sia la fine del 1926, perché ha aiutato Turati che è segretario del partito socialista unitario, a scappare in Francia. Quindi questa è una pratica che è sufficiente per poterlo far condannare al confino. Tra i primi processi del tribunale speciale della Difesa dello Stato, c’è quello contro i dirigenti del Partito Comunista d’Italia, il processo a Gramsci, e poi è un lavorio che va naturalmente avanti nei contesti periferici. Alcuni di questi processi hanno una grande copertura mediatica, perché il fascismo vuole mostrare la sua capacità di colpire quella che ha chiamato una antinazione. Sono sono i traditori della Patria, sono i traditori della nazione. Altri di questi procedimenti magari si giocano di più nei contesti locali delle città appunto delle città medio medio piccole

 


 DOMANDA BERTOLUCCI: Ma quindi cosa è stato il carcere per gli antifascisti? È stato anche un’esperienza, per così dire, formativa?

RISPOSTA FULVETTI: Sull’esperienza del carcere, l’antifascismo poi ha costruito diciamo così un pezzo del suo mito. Il fatto che chi andava in carcere aveva una straordinaria capacità di resistere al regime. E che nelle pieghe diciamo di questa esperienza detentiva, sia in carcere che al confino, durissima, tremenda interrogatori, in qualche caso torture, si riesce ogni tanto a studiare. Al confino Rosselli scrive Socialismo liberale, che è il suo testo più importante. Nel 1941, Spinelli e Colorni scrivono il Manifesto di Ventotene, che è uno dei manifesti dell’europeismo, quindi riescono a scriverlo a buttar giù queste righe mentre sono in una situazione detentiva. Ecco su questo, ripeto, è stato costruito un po’ questo mito che stare in carcere fosse come dire anche l’occasione per formarsi, per alfabetizzarsi alla politica, per studiare, per prepararsi e per essere pronti una volta che si fossero create le condizioni per poter riorganizzare un’opposizione al fascismo. La storiografia negli ultimi anni ha evidenziato come un conto è il mito, un conto è la realtà dei fatti. Per esempio rispetto anche alla questione della richiesta della grazia. I responsabili dei partiti antifascisti rimarcano con forza che non si deve chiedere la grazia al fascismo. Casomai la revisione del processo ma non la grazia perché significa riconoscere l’autorità del regime. Quindi questo è un passaggio che non si vuol fare. L’esempio massimo, emblematico, è quello di Sandro Pertini futuro Presidente della Repubblica. C’è la madre che che manda una lettera a Mussolini per poter chiedere la grazia del figlio e lui risponde, se non ricordo male è il momento in cui è a Pianosa, dicendo mai e poi mai io farò un passaggio di questo tipo perché conta di più la dimensione della militanza politica, le mie idee politiche, che non un passaggio di quel tipo che significherebbe dare un riconoscimento al fascismo. Ecco la realtà delle cose ci racconta invece altro. Quasi un migliaio, se guardiamo soltanto a militanti del Partito Comunista, che in realtà la grazia La chiedono perché l’esperienza della detenzione è un’esperienza traumatica che ti cambia da un punto di vista molecolare, come scrive Gramsci in uno dei suoi quaderni. L’uomo che entra in carcere dopo un anno, è un uomo diverso, dopo due è un uomo ancora diverso e dopo tre è un uomo ancora ancora diverso. C’è un bel librettino che ha fatto Aldo Agosti, che è un collega dell’università di Torino, uno studioso dell’antifascismo, pubblicato mi pare un paio d’anni fa, che la vicenda di Cesare Casse che è un comunista torinese, un sindacalista, un militante rivoluzionario, uno di quelli che prova a organizzare il Partito Comunista. Quando arriva poi la repressione, quando arrivano le leggi fascistissime, viene arrestato nel 27. Si è sposato e ha una bimba piccola, nata da poco. È interrogato, si gira tutta una serie di carceri… Torino, Spoleto, Perugia… scrive queste lettere alla moglie e alla fine nel 34, molla. Molla perché pesa quello che Agosti chiama il tranello dei sentimenti, cioè rispetto alla dimensione della militanza lui vuole tornare a casa dalla moglie da questo e da questo bambino. Non tradisce nessuno degli altri compagni di militanza, quindi non è che parla però chiede la grazia. Gli viene concessa, lui esce e su queste dinamiche poi dopo si scatenano anche dei meccanismi di oblio nel dopoguerra. Perché lui torna comunque a Torino, alcuni degli ambienti antifascisti che sono consegnati all’inazione da un punto di vista politico, da un punto di vista pubblico, non è che sono spariti tutti quanti gli antifascisti. Lo conoscono e lui viene un po’ marchiato. E anche dopo il 45 quando escono i primi libri sulla storia del movimento comunista a Torino, l’ordine nuovo, l’occupazione delle fabbriche, il sindacato, il suo nome sparisce proprio in conseguenza di questa scelta. È come se ci fosse un po’ una dimensione di damnatio memoriae. E nei carceri e nei luoghi di confino ci finiscono anche per esempio quegli antifascisti che vanno a combattere in Spagna. Questo è un altro dei grandi miti dell’antifascismo europeo e non è soltanto un mito, è una pagina straordinaria. Insomma militanti antifascisti da tutto il mondo, di 40 nazionalità, che vanno a difendere la Repubblica, dopo che nell’estate del 36 c’è l’avvio della guerra civile da parte di Franco. Ci vanno dalla Nuova Zelanda, dagli Stati Uniti, dal Canada, dal Sud America, ci vanno anche circa 4.000 italiani, alcuni già legati alle strutture clandestine dei partiti antifascisti. Qualcuno è già all’estero già a fare un fuoriuscito. Molti partono per conto loro dall’Italia. Ad esempio dalla Toscana, ce ne sono circa 400 e molti di loro partono autonomamente con la barca, dalla costa del Tirreno vanno in Corsica e da lì nella Francia meridionale e poi vengono inseriti in questi meccanismi che favoriscono l’afflusso dei volontari a difendere la Repubblica. È un’esperienza traumatica per due motivi. Uno perché combattere non è un passaggio semplice, quindi imbracciare un fucile, al di là delle convinzioni politiche, può essere un’esperienza che respinge. Questo vale in Spagna come vale poi nella resistenza italiana dopo il 43. E quindi c’è poi la sconfitta della Repubblica all’inizio del 39. È difficile, anche perché emerge diciamo così un altro elemento che spacca un po’ il mondo antifascista europeo, che è la questione dello stalinismo. Quindi il rapporto con i sovietici per antifascisti di cultura libertaria, socialista, anarchica, non è semplice. Dentro la guerra civile spagnola, c’è anche una doppia guerra civile nel 37-38. Alla fine quando c’è la sconfitta, questi antifascisti che provano a scappare, qualcuno torna in Francia, qualcuno va in Messico, insomma la stragrande maggioranza passa i Pirenei e vanno in Francia. Insomma non era andata a difendere la Repubblica ma era stato il terreno d’approdo dell’antifascismo europeo negli anni venti e negli anni trenta. Anche in Francia gli equilibri politici sono cambiati alla vigilia della seconda guerra mondiale, questi sono degli indesiderabili e vengono messi all’interno di campi di detenzione. Quindi fanno l’esperienza comunque dei campi dei campi di internamento in Francia. Poi la Francia viene invasa da parte della Germania, arriva la Repubblica di Vichy e quindi a partire dal 1940 si cominciano degli accordi con il governo fascista e molti di questi uomini rientrano e vanno a finire direttamente in carcere. Quindi quando poi si arriva a 43 al 25 luglio l’8 settembre, insomma la transizione di quell’anno, tra gli antifascisti che escono dal carcere nell’agosto del 43, proprio tra il 25 luglio e l’8 settembre, ci troviamo alcuni antifascisti che sono sempre rimasti in Italia ma altri che sono andati anche a combattere in Spagna e che poi dopo sono stati costretti di nuovo a fare i conti con questa esperienza.

 


 DOMANDA BERTOLUCCI: Anche quando l’Italia dichiara guerra all’Inghilterra nel 1940, tanti antifascisti finiscono in carcere immagino.

RISPOSTA FULVETTI: Allora diciamo che la questione che probabilmente quando l’Italia entra in guerra nel giugno del 40, di antifascismo organizzato nel nostro paese c’è rimasto poco o nulla. C’è sicuramente una dimensione di quello che Giovanni De Luna ha chiamato antifascismo esistenziale, cioè sono identità politiche che vengono magari tramandate da padre a figlio, che rimangono all’interno delle famiglie. Ma che non hanno uno sbocco pubblico e soprattutto non hanno una dimensione collettiva perché ormai, come dire, i meccanismi del regime hanno funzionato, quindi la fotografia dell’antifascismo italiano ed europeo nel 1939 alla vigilia della seconda guerra mondiale, è una fotografia impietosa. Cioè gli strumenti repressivi del regime hanno funzionato. Per sopravvivere si fanno scelte di conformismo, di accettazione del contesto della dittatura. Un altro degli strumenti del regime è il casellario politico centrale. Questa maniera di schedare tutte i sovversivi, che tra l’altro è stato creato dall’Italia liberale nel 1894, dopo che ci sono i Fasci Siciliani, le proteste in Lunigiana dei cavatori e quant’altro, che il fascismo sistematizza. Quindi i sovversivi vengono seguiti da parte delle autorità di polizia, si scrivono delle relazioni che vengono mandate al Ministero dell’Interno e quando una persona non è più considerata pericolosa da un punto di vista politico, viene radiato da questo da questo schedario di sovversivi. Che tra l’altro poi non verrà cancellato nel 45 ma dopo il 45 nel contesto della guerra fredda e della democrazia protetta, continuerà a essere utilizzato per schedare gli oppositori politici. Ma al di là di questo quando uno non è più pericoloso viene radiato, c’è l’istituto della radiazione. E la redazione raggiunge il suo picco proprio negli anni trenta. Ora, qualche antifascista è anche bravo a camuffare e quindi dice insomma io mi concentro sul privato, sulla vita di tutti i giorni, aspetto che arrivino condizioni migliori. Però c’è questa dimensione effettiva della rinuncia, da parte dell’antifascismo. 

 


 DOMANDA BERTOLUCCI: quand’è che c’è un cambiamento, una svolta per l’antifascismo italiano? Quand’è che riescono a riprendere vigore le opposizioni? 

RISPOSTA FULVETTI: Il quadro cambia soltanto con la seconda guerra mondiale e con il cattivo andamento per l’Italia della Seconda Guerra Mondiale. La cronologia è una cronologia chiara. L’inverno 42-43 è l’inverno della crisi economica sociale, nel marzo del 43 ci sono gli scioperi nelle città operaie che poi proseguono nel mese di aprile e in quell’inverno si ricostituiscono un po’ di cenacoli antifascisti, che si parli di liberali di cattolici, dei reduci, diciamo così di Giustizia e Libertà che creano il Partito d’Azione e il Partito Comunista in quell’inverno fa rientrare alcuni suoi militanti in Italia, clandestinamente. Perché si rende conto che ci sono ora le condizioni di poter fare proselitismo nella società italiana e di trovare una maggiore disponibilità a fare attività di tipo antifasciste. Poi la guerra sta andando male e quindi di lì poi a qualche mese arriva lo sbarco alleato in Sicilia, cambia completamente il contesto. Però a lungo si è raccontato di una grande continuità tra antifascismo e resistenza. Ecco le ricerche più recenti, in realtà dimostrano che questa continuità non c’è. Si è creata perché troviamo di tanto in tanto qualche vecchio antifascista che entra dentro le formazioni Partigiane e ancora di più in realtà troviamo i vecchi antifascisti che sono stati in carcere al confino, che entrano nei Cln, nei comitati di Liberazione Nazionale e poi vengono candidati neI consigli comunali quando nella primavera del 46 si tengono le elezioni. Perché sono persone, diciamo così più mature, che hanno alle spalle un minimo di esperienza politica garantiscono i partiti. Li troviamo meno nella Resistenza perché molti di loro sono quarantenni e l’esperienza della montagna è complicata, anche da un punto di vista fisico. A partire da qui si è detto come dire che l’antifascismo avrebbe avuto una grande capacità di resistere, che le strutture clandestine sarebbero state operative tutto sommato per tutti gli anni 30, che il vero sentire degli italiani sarebbe stato un sentire antifascista in quei due decenni che però non si poteva manifestare perché c’erano gli strumenti repressivi della dittatura… Ecco è una lettura un po’ diciamo così un po’ semplicistica

 

 

 

DOMANDA BERTOLUCCI: Quando cade il regime poi si arriva all’8 settembre, le carceri, quindi iniziano a riempirsi di quelli che potremmo chiamare nuovi antifascisti, ovvero i ventenni nati cresciuti sotto regime che non si erano mai opposti, che però finiscono in carcere e spesso vengono anche deportati. 

RISPOSTA FULVETTI: Allora sì, perché quello come dire è il momento della scelta, per citare il primo capitolo di una guerra civile che è il libro di Claudio Pavone è uscito nel 91 che ha cambiato il modo di scrivere e di studiare la storia della Resistenza, quindi andare a vedere meno le sigle partiti politici, i programmi e ragionare di più appunto delle condizioni concrete in cui in buona misura questi ventenni, ma non soltanto ventenni, entrano nelle formazioni partigiane. Quindi ragionare del perché lo fanno se vengono da famiglie in cui appunto un minimo di antifascismo esistenziale era rimasto, oppure perché hanno maturato la convinzione che sia necessario far qualcosa andando a combattere nelle guerre fasciste all’estero. Che c’è anche un antifascismo che possiamo chiamare un antifascismo di guerra, lo fanno proprio per reazione, diciamo così, al regime, per motivi generazionali, perché dicono abbiamo 20 anni e ora tocca a noi e quindi dobbiamo essere protagonisti del nostro destino, molti lo fanno per questioni private, seguendo degli amici, seguendo gli amori. Quindi come dire la letteratura della Resistenza, Neghello, Fenoglio, ci ha raccontato molto prima della storiografia che poi ci è arrivata appunto con Pavone, quanto come dire non è che sono le identità politiche già formate dopo l’8 settembre che spingono i giovani. Non è che si va in montagna perché si è un comunista, un socialista, un cattolico. Si va per altri motivi. Poi magari dentro la resistenza ci si alfabetizza. E certo si fa i conti con la repressione tedesca, con la repressione del fascismo repubblicano, e si finisce in carcere. Si finisce in questi luoghi di detenzione, si fa i conti spesso e volentieri con la tortura che è uno dei grandi incubi di questi ragazzi. C’è un bellissimo capitolo del libro di Santo Peli dedicato al fenomeno del Gappismo, che è una pagina particolare di storia della Resistenza italiana, che racconta proprio della tortura, del grande timore che questa esperienza si poteva portare dietro. Il timore di non essere all’altezza, di non reggere, quindi di parlare e quindi di tradire, di denunciare alcuni compagni appunto della scelta resistenziale. E ci sono anche quelli che perché hanno timore di questo passaggio, per esempio si si suicidano come fa Gianfranco Mattei che era un docente di chimica del Politecnico che diventa l’artificiere dei Gap romani. Il fratello di Teresa Mattei che poi sarebbe stata appunto ecco Costituente e quant’altro. Quindi si fa i conti con l’esperienza della detenzione che in alcuni casi è anche la prima tappa della deportazione, cioè dopo l’8 settembre si aggiunge anche questo elemento. In conseguenza della scelta partigiana e antifascista, si può finire dentro il sistema concentrazionario tedesco, che è un sistema concentrazionario complicato, diciamo così, che ha soprattutto tre dimensioni. C’ha la dimensione di quelli che si chiamano Konzentrationslager, KL, sono i campi per gli oppositori politici: Dachau e i suoi fratelli insomma. Perché quello è il campo che viene creato appunto da Himmler, da Eike, nel 1935. Poi ci sono a partire soprattutto dal 42 dopo che la conferenza di Wannsse decise lo sterminio sistematico degli ebrei, ci sono i campi di sterminio, i Vernichtungslager, attorno a questo c’è un’ampia rete di campi di lavoro. Campi di lavoro nei quali vanno a finire, i prigionieri di guerra delle varie nazionalità nei paesi dove la Wehrmacht è andata a combattere e creare dei governi di occupazione: dal contesto balcanico alla Francia, l’Olanda, il Belgio, naturalmente l’Unione Sovietica e in parte anche l’Italia. È la vicenda che per esempio vivono i soldati italiani dopo l’8 settembre: alleati della Germania fino al giorno prima, dopo l’armistizio diventano dei traditori. Chi prova a resistere viene disarmato e viene passato per le armi. È il contesto in cui avviene per esempio la strage di Cefalonia che è il massacro di cittadini italiani più grave fatto dai tedeschi. Moltissimi vengono disarmati e vengono deportati in Germania. E sono un milione di soldati italiani che vanno a finire in questa rete di campi di lavoro, comunque dentro il sistema concentrazionario. Possono scegliere di giurare fedeltà al Reich e alla Repubblica Sociale Italiana e rientrare in Italia. Possono scegliere di optare. Su questo milione di soldati, in realtà lo faranno più o meno diciamo così un po’ più di centomila. Quindi 800mila soldati rifiutano questo giuramento e restano in all’interno dei campi, quindi a fare i conti con un’esperienza che è un’esperienza comunque assolutamente difficile. E poi comincia la deportazione degli antifascisti, dopo gli scioperi. Perché anche questa è una delle forme delle pratiche che l’antifascismo utilizza per palesare un’opposizione ai tedeschi occupanti e alla Repubblica Sociale Italiana. Scioperi dall’autunno del 43 tra Genova, Torino, Milano a intervalli regolari. Hanno il loro punto apicale nella prima settimana di marzo del 44, con lo sciopero generale dell’alta Italia e la risposta è una risposta durissima. Perché nelle fabbriche dove si è scioperato, i tedeschi arrivano spesso e volentieri con delle liste di operai che hanno scioperato, che vuol dire che c’è la dimensione della delazione da parte di altri italiani spesso appoggiati dai fascisti repubblicani, e vengono deportati nei campi di concentramento. La stima della deportazione politica, parla di 24-25 mila persone, anche se non è sempre semplice arrivare a una stima perché poi non in tutti i campi ci sono registi di entrata sistematizzati. Diventa tutto quanto molto più caotico quanto più si entra nel 44 anche per per la stessa Germania. Quindi abbiamo questa idea di un paese che che ha una grande dimestichezza burocratica nel gestire i meccanismi della repressione, i meccanismi dello sterminio. È chiaro che poi più si entra nel 44 e più questo è complicato. E l’ultimo anello a cui ho accennato naturalmente è quello della deportazione razziale. Perché la storia della Shoah per quello che riguarda il nostro paese si colloca proprio nell’autunno del 43. L’evento forse più significativo è il rastrellamento del ghetto di Roma del 15 di ottobre del 1943 e poi c’è il passaggio del Congresso di Verona che è l’unico congresso della RSI in cui il fascismo repubblicano conferma la scelta delle leggi razziali e Guido Buffarini Guidi, che è il Ministro dell’Interno della RSI, il 30 di novembre emana una circolare a tutte le questure, le prefetture in cui dice “andiamo alla ricerca degli ebrei e mettiamoli a disposizione dei tedeschi perché vengano deportati”. Quindi anche qui c’è una chiara responsabilità da parte del fascismo da parte del fascismo repubblicano. Quindi è tutto il contesto che poi porta alla costruzione di un meccanismo della deportazione, con i treni che partono da Roma da Firenze dal binario 21 a Milano dove ora è stata fatta anche una struttura, una bella struttura museale, e attraverso il Brennero si finisce poi dentro i campi di sterminio. La stragrande maggioranza poi degli ebrei presi dall’Italia finiscono finiscono ad Auschwitz 

 


 DOMANDA BERTOLUCCI: diciamo per arrivarci si riciclano, tra virgolette, anche quelli che sono i campi per prigionieri di guerra, come ad esempio Fossoli, che viene usato come un campo di raccolta.

RISPOSTA FULVETTI: Sì, la storia di Fossoli è un emblema di quello che succede in in Italia tra il 43 e il 45, anche tenendo conto di un altro aspetto: uno degli obiettivi che hanno i soldati tedeschi che combattono in Italia a un certo punto è anche catturare la forza lavoro, cioè catturare uomini adulti. In parte sono impiegati per i lavori di fortificazione in Italia sotto quella che è appunto è l’organizzazione Todt, l’organizzazione di questo ufficiale, Fritz Todt, lavori sulla Gotica e quant’altro. Molti però diventano Braccia per il Reich, per citare un pezzo del titolo di un libro curato da Brunello Mantelli che è un collega che negli ultimi anni ha promosso proprio una ricerca specifica su questo, sulla deportazione al lavoro, al lavoro coatto, molto molto importante. Perché c’è proprio un disegno sistematico di arresto della popolazione che spesso e volentieri si affianca alle stragi contro la popolazione civile. Quindi quando si fanno i grandi rastrellamenti nelle aree partigiane, si utilizza la violenza andando a uccidere delle persone, quelle che sono più compromesse con il movimento partigiano ma poi si arrestano decine, centinaia di persone e c’è proprio una rete di campi temporanei dall’Italia centrale, dall’Italia appenninica. E poi dopo si finisce a Fossoli, Verona… Per qualcuno la sosta è al campo di Bolzano Gries e poi dopo si finisce appunto in Austria, in Germania. E Fossoli è l’emblema di tutto questo. Perché Fossoli ci sono prima i prigionieri di guerra alleati, poi diventa un campo di detenzione per gli ebrei, da cui partono i treni per per Auschwitz. Ad un certo punto nel 44 ci finiscono anche gli antifascisti mentre dall’estate del 1944, sul finire dell’estate, diventa un campo di transito per i lavori per i lavoratori coatti. Per quelli che poi appunto vengono deportati in Germania con questa finalità. La maggior parte degli uomini tedeschi sono a combattere e quindi il fatto che si possa utilizzare questa massa di di schiavi dentro le fabbriche, dentro questi campi di lavoro, è comunque una delle chiavi che spiega anche la tenuta del nazismo fino alla fine del 44, all’inizio del 45. Quindi una tenuta che prosegue molto molto a lungo. Un’ultima considerazione, se guardiamo diciamo così ai carceri o comunque più in generale ai luoghi di detenzione, non ci sono soltanto gli edifici. Ci sono gli edifici in parte anche oggi utilizzati anche con una valenza memoriale, sono i luoghi in cui avvengono le torture, spesso e volentieri gestiti da personale italiano non soltanto da personale da personale tedesco, via Tasso e quant’altro. I carceri, i luoghi di detenzione nell’Italia del 43-44, soprattutto sono moltissimi. Questo è un aspetto che non va dimenticato. Perché spesso e volentieri i reparti tedeschi, soprattutto alcuni che attraversano l’Italia da sud verso nord nella ritirata soprattutto nell’estate del 44, hanno anche loro carceri divisionali. Quindi se c’è un comando che sta per due mesi di stanza in una zona dell’Italia centrale, sceglie un edificio, lo confisca e lo adibisce a carcere divisionale. E anche questi sono luoghi, di tortura, di interrogatorio, di vessazione nei confronti degli italiani che vengono arrestati. Mi viene in mente che il reparto tedesco più violento che ha combattuto in Italia, che è la sedicesima divisione SS del generale Max Simon, è il reparto che fa la strage di Sant’Anna di Stazzema, di Vinca, di Bardine, di Monte Sole più nota come come la strage di Marzabotto, ma è corretto dire Monte Sole perché quella è tutta l’area non c’è soltanto il comune di Marzabotto che insiste su quella zona. Ecco per esempio, quando gestisce le azioni depressive in tutto il contesto che sta a nord del fiume Arno, quindi tra l’Arno e le Apuane e l’Appennino, mette il suo comando a Nozzano che è un paese al confine tra Pisa e Lucca, c’è il suo carcere divisionale ed è il carcere da cui transitano molte persone che sono catturate nel corso del rastrellamenti, quelle più sospetti di legame con l’attività partigiana e molte di queste poi dopo vengono passate per le armi. Quindi se ragioniamo diciamo così di luoghi di detenzione c’è anche questa dimensione nel contesto dell’occupazione che viene fuori.