Trascrizione intervista Marco Menin

"Mio padre, spia fascista"

Traditori spie e torturatori. Dopo l’8 settembre la Repubblica Sociale Italiana ha potuto contare sui centinaia di fiancheggiatori che lottavano al fianco dei nazisti contro chi voleva scacciare gli invasori. Si macchiarono dei crimini efferati e contribuirono anche alle stragi e alla deportazione di migliaia di persone. Ma cosa significa, a distanza di tanti anni dalla sua morte, scoprire che tuo padre ha contribuito a far deportare centinaia di persone? Ne abbiamo parlato con Marco Menin figlio di Sergio spia e torturatore fascista. Menin, chi era suo padre?

RISPOSTA MENIN: Mio padre si chiamava Sergio Menin ed era un artigiano, lavorava nell’ambito della manutenzione degli ascensori. Io sono figlio unico. In realtà ho avuto un fratello che è nato morto più piccolo di me e dopo di me, diciamo anzi dopo quel che quel trauma, non ci sono stati altri componenti della famiglia. E mio padre ha avuto una vicenda di salute abbastanza complicata ed è morto a 75 anni nel 1996. E fino alla sua morte non mi aveva raccontato molto, anzi quasi nulla delle vicende legate alla seconda guerra mondiale, alla quale aveva partecipato prima come militare e poi, come ho scoperto, all’interno dell’ufficio politico investigativo della Guardia Nazionale, Repubblica Italiana. Quindi praticamente la polizia politica della Repubblica di Salò. Quando io ho fatto le prime ricerche, ho fatto una scoperta che mi ha spiazzato perché le sue prime tracce che si trovano in rete, soprattutto nei documenti giudiziari, sono riferite alla sua partecipazione alle attività della Divisione Partigiana Pasubio. Che era la più grossa divisione partigiana del nord Italia arrivava fino a 1500 partigiani armati. E lui risultava essere uno dei componenti del gruppo ristretto di comando che affiancava il comandante Marozin, è che è stato personaggio anche controverso tanto che era stato addirittura condannato a morte dal Cln di Vicenza nel 1944 per dissensi con la gestione dell’attività di resistenza. Ecco mio padre è comparso in numerosi processi legati a vicende della Divisione Pasubio. E poi successivamente però poco prima della dell’annientamento della Divisione Pasubio si era trasferito in città a Verona ed era entrato in un’altra formazione partigiana che era il Battaglione Carlo Montanari. Noi dobbiamo fare mente locale sulla situazione di Verona a quei tempi. Verona era il centro nevralgico del potere fascista, ma anche dell’occupazione nazista dell’Italia. In quanto era sulla linea di collegamento del Brennero e tutti i comandi principali della Gestapo, delle SS, comunque della Wehrmarcht Italia erano a Verona. E quindi era una città piena di caserme, piena di gruppi armati che giravano per le strade, piena di carceri militari e politici. Quindi era estremamente difficile muoversi in una situazione del genere e le attività della Resistenza a Verona sono state limitate. Però c’era un gruppo di giovani, soprattutto giovani. Intendo anche studenti delle scuole superiori, 16-17 anni, che si era costituito nel tentativo di salvare il salvabile, della dignità e della struttura della città. Ecco mio padre che era un po’ più grande, perché era nato nel 1921, quindi nel 44 aveva 23 anni, era comunque un ragazzo ma che aveva alle spalle un’esperienza di anni di guerra e anche di essere stato partigiano, che lo lo metteva su un gradino sopra e quindi ha facilmente guadagnato la fiducia dei ragazzi del Battaglione Montanari e questo ha segnato la fine drammatica del Battaglione. Perché tutti e nel giro di pochi giorni sono stati catturati e deportati nei lager e di questi sarebbe in pochi hanno fatto ritorno. E io sono entrato in contatto proprio con la vicenda di mio padre attraverso le parole di Ennio Trivellin che era all’epoca il presidente della sezione Aned di Verona l’associazione Nazionale ex deportati e che quando andava a parlare nelle scuole raccontava di come era stato catturato e facendo il nome e cognome del traditore che l’aveva fatto arrestare. Quello che non aveva chiaro lui e sul quale non potremmo mai avere la certezza, perché questa non è stata chiarita neanche nelle sentenze del tribunale all’epoca e quindi oggi che non ci sono più testimoni ancora più difficile capirlo, era se lui era entrato nella Divisione Pasubio perché infiltrato dall’ufficio politico investigativo oppure se era un partigiano, magari di quelli che erano poco convinti dal punto di vista politico ma che era stufo della guerra e si era rifugiato in montagna, ma che poi era passato coi fascisti. Su questo elemento non avremo mai certezze perché nessuno potrà toglierci il dubbio. Io rimango convinto che mio padre, che era stato fascista prima dell’8 settembre in maniera convinta perché era nato con la marcia su Roma e che sarebbe rimasto fascista dopo il 25 aprile perché lui comunque aveva conservato l’adesione al Movimento Sociale seppure senza aver svolto più nessun ruolo politico a Verona, ma era una persona che aveva in sé Il senso dell’onore, della parola presa, dell’impegno… il pensare che potesse aver tradito il fascismo una prima volta per passare con i Partigiani e che poi avesse tradito i Partigiani per tornare coi fascisti, a me pare una cosa completamente fuori da quello che io ho conosciuto. Che era una persona appunto con un senso dell’onore molto forte, anche se chiaramente con tutti gli equivoci che vanno dietro all’interpretare questo onore con l’adesione ad un regime politico che aveva portato alla rovina il nostro paese, che ha oppresso, che aveva perseguitato centinaia di migliaia di persone.

DOMANDA BERTOLUCCI: Suo padre, che lei sappia, ebbe anche un ruolo attivo nelle torture? RISPOSTA MENIN: Allora io quello che so io… io ho ricostruito la sua vicenda attraverso le sentenze di tribunale che sono rimaste ma anche attraverso alcune testimonianze dall’interno delle celle dell’ufficio politico investigativo. Alcune di queste descrivono anche la sua partecipazione agli interrogatori, alle torture, in particolare ce n’è una molto cruda di Mario Salazzari che è uno scultore che è diventato partigiano e che è stato interrogato, torturato e che si è salvato miracolosamente da una condanna pesante, se non a morte, ed è riuscito a fuggire poi dal carcere prima del 25 aprile. E io resto veramente sconcertato perché quello che vedo lì dentro è una persona, in quei racconti intendo, è una persona totalmente diversa da quello che ho vissuto io come figlio di un adulto che era assolutamente rispettoso, contrario alla violenza, non parliamoci delle donne che andavano, al di là dello stereotipo una donna non si tocca neanche con un fiore, però è quello che mi è stato trasmesso. E pensare che mio padre era indicato come uno di quelli che erano utilizzati per gli interrogatori delle donne all’interno di quelle celle fa veramente rabbrividire. Poi in realtà e devo anche dire che è abbastanza difficile andare a valutare le testimonianze dell’epoca perché mio padre, al contrario di altri che erano stati arrestati, è riuscito a rendersi latitante. E quindi è rimasto fino all’agosto del 1948 nascosto pare in un convento francescano nella laguna veneta. E solo dopo l’agosto del 48 si è costituito. Questo vuol dire che i processi che sono avvenuti, sono avvenuti senza la sua presenza. E quindi questo ha avuto come come conseguenza il fatto che potesse anche essere indicato da un lato come un capro espiatorio sul quale era comodo scaricare le accuse per scaricarsi le proprie responsabilità da parte dei suoi complici. E dall’altro lato che ci fosse molto molta acrimonia, molto astio, molta rabbia nei suoi confronti da parte invece dei sopravvissuti a quelle torture. Perché lui era comunque il traditore. E quindi mentre sugli altri insomma che sono qui dentro e che magari fanno la faccia pentita, posso essere anche un po’ più comprensivo fra virgolette, lui che è quello che ci ha tradito quello che ci ha fatto catturare tutti e che poi anche fuggito e che adesso non si sa dov’è, era un ottimo bersaglio sul quale scaricare le accuse. E questa cosa traspare anche dalle sentenze dove gli stessi giudici esprimono dubbi sul fatto che lui fosse realmente colpevole di tutto quello che gli era stato attribuito. Detto questo naturalmente la colpa c’era e magari non tutto ma buona parte. Certamente lui è stato coinvolto con il grado di vice brigadiere dell’ufficio Fermi e perquisizioni, è stato coinvolto dopo il l’ottobre del 1944 quando c’è stata la cattura di tutti i partigiani della Battaglione Montanari e lui ha lavorato sia negli interrogatori nelle celle che nei rastrellamenti, in azioni, arresti di vario tipo dell’ufficio politico investigativo.


DOMANDA BERTOLUCCI: Visto che suo padre ovviamente non le ha mai detto niente di tutto questo, come è stato a scoprirlo? E come lo ha scoperto?
RISPOSTA MENIN: Allora, intanto io sono nello spirito ancora oggi però all’epoca anche come lavoro, sono insegnante di fisica. Non c’entra niente con la storia, però comunque nel giorno della memoria, io facevo sempre delle riflessioni con i miei studenti. Dedicavo quel giorno a ragionare insieme su cosa era accaduto, perché non accadesse più. E nel 2020, quindi parliamo di 24 anni dopo la morte di mio padre, per la prima volta mi è venuta la curiosità di vedere se Google mi dava qualche qualche traccia della sua appartenenza alla Repubblica Sociale Italiana. Ho scritto banalmente sul motore di ricerca il suo nome e cognome seguito da Repubblica Sociale Italiana, pensando che mi venisse qualche informazione. Io fino a quel momento sapevo solo che lui aveva avuto qualcosa a che fare con la Repubblica Sociale, ma pensavo si fosse inserito un po’ come tanti, all’epoca tutti erano fascisti quindi ti trovi in una situazione in cui bisogna in qualche modo barcamenarsi, cavarsela, salvarsi la vita e lui per salvarsi avesse dato una adesione alla Repubblica. E lì mi si sono aperti invece centinaia e centinaia di documenti in cui è stato subito chiaro il suo ruolo all’interno dell’Upi. E in cui è emersa anche da subito il suo coinvolgimento all’interno delle formazioni partigiane cosa che mi stupiva. Perché invece la comunicazione che veniva trasmessa da lui e anche da mia madre, era che i partigiani erano tutti opportunisti, cioè… Il racconto della storia da parte sua, era che la resistenza era stata una cosa di facciata che non aveva avuto alcun valore. Ecco quindi che fosse stato per mesi partigiano e poi avesse cambiato casacca, mi lasciava perplesso e mi lascia molto perplesso ancora oggi come idea. E io ripeto mi sono convinto che lui sia stato fin dall’inizio infiltrato all’interno della Divisione Pasubio. E però al di là di questo, per me è veramente è stato una valanga di sconvolgimenti. Perché io avevo vissuto quando gli ultimi anni con la malattia di mio padre si era dovuto un po’ invertire il ruolo di figlio, ed ero io che dovevo aiutare, assistere, ero in casa sua quando è morto nel suo letto. E ho passato giorni vicino a lui a parlare, a raccontarsi. E pensare che neanche sul letto di morte a lui fosse passato per la testa di dirmi qualcosa di queste vicende che, per carità, ormai erano così lontane anche per lui… Però mi ha fatto star male veramente. Anche perché la mia strada personale politica di impegno sociale, era andata totalmente in altre direzioni. E quindi inizialmente la reazione è stata di totale rifiuto di questo. E devo dire mio figlio, che ha conosciuto bene il nonno che è morto quando lui aveva dieci anni e quindi non era più un bambino piccolo, mia figlia aveva è più giovane quindi ha un ricordo un po’ sbiadito del nonno, ma mio figlio è già vissuto insieme, momenti importanti, e la prima reazione che ha avuto è stata “Voglio cambiare cognome, perché non voglio che un giorno i miei figli facciano quello che abbiamo fatto noi adesso che vadano a scoprire che le radici della loro famiglia sono su quel tipo di storia lì”.


DOMANDA BERTOLUCCI: Cosa può lasciare una storia come la sua che ha deciso comunque di raccontare?
RISPOSTA MENIN: Allora intanto a me oggi, ha lasciato un po’ più di serenità. Adesso sono passati quattro, quasi cinque. Perché io comincio a cercare di distinguere la sua vicenda personale, che non giustifico ovviamente perché io sono consapevole che mio padre si sia macchiato di quelli che oggi chiamiamo crimini contro l’umanità, però sono crimini che sono stati compiuti in una situazione nella quale nessuno di noi oggi può immaginare di potersi trovare. E in queste situazioni scelte sbagliate, scelte orripilanti, scelte criminali, possono coinvolgere anche persone normali. E questo lo abbiamo visto in altre situazioni. Cioè capire in Jugoslavia dove io andavo in vacanza prima, quando si chiamava ancora Jugoslavia e tutti vivevano insieme le famiglie eccetera e ci sono stati dei lager in cui i torturatore era l’ex vicino di casa, persone del tutto normali, in quelle situazioni arrivano a fare cose assolutamente incredibili e ingiustificabili, pazzesche. Quindi Innanzitutto vuol dire che non dobbiamo arrivare in quelle situazioni lì. Perché significa travolgere tutto quello che è la nostra cultura sociale, le nostre relazioni il nostro modo di essere e quindi fare attenzione a non prendere quella quella china che ci porta in uno scivolo dal quale non riusciamo più a tornare indietro. Dall’altro lato mi ha fatto capire come sia necessario che io mi assuma la responsabilità, ancora più di prima, a parlare coi giovani raccontare che cosa è avvenuto. Vorrei raccontare come al di là del giudizio sulle persone ci sia un giudizio storico che non possiamo lasciar perdere, perché quel giudizio storico debba essere costruito sulle valutazioni della storia e non sulle valutazioni esclusivamente della memoria. Quando io sento parlare di costruire una memoria condivisa rimango molto perplesso. Perché la mia memoria familiare, che mi è stata trasmessa non direttamente perché non mi è stato raccontato nulla, però mi è stata trasmessa una memoria di quello che in qualche modo era l’humus da cui era nata quella quella storia lì. Era una memoria che giustificava, che dava dignità a delle scelte politiche che sono aberranti, sono criminali. Cioè tutto quello che storicamente possiamo dire sul fascismo va detto. E non è attenuato dal fatto che persone abbiano una memoria, magari legata alla giovinezza, legata a eroismo, di giustizia, di onore della Patria… cioè i crimini sono crimini e questo non è giustificabile e non è attenuato dal fatto che alcune persone possano raccontare la loro scelta. Cioè va bene che raccontino. Ma questo non trasferisce che tutte le memorie hanno lo stesso valore.